Berlino, Germania (Weltexpress). Il germanista e giornalista Rottenfußer risponde “sì” a questa domanda e fornisce valide ragioni a sostegno della sua tesi. In effetti, questa pulsione storica delle élite tedesche di distruggere il proprio popolo sembra determinare ancora oggi, inconsciamente, le azioni dei politici di spicco e dei loro cortigiani mediatici.
Cosa sta succedendo alla Germania? È una domanda che chiunque osservi più da vicino una società che appare apatica, divisa e culturalmente svuotata deve porsi. I tedeschi sembrano stanchi, anzi, decisamente stanchi della vita. “Der deutsche Todestrieb” (La pulsione di morte tedesca) è anche il titolo di un lunghissimo saggio di Roland Rottenfußer*, germanista, giornalista e autore, recentemente pubblicato sulla piattaforma Internet Manova (precedentemente Rubikon). In esso descrive una nazione che storicamente ha coltivato una tendenza all’autodistruzione e che oggi la perpetua in forma modernizzata.
In effetti, guardando all’attuale politica nel nostro Paese, vengono in mente numerosi eventi a sostegno della tesi di Rottenfußer, come ad esempio il comportamento del cancelliere federale Friedrich “Drecksarbeit” Merz. Già nel maggio 2022, in un’intervista a RTL/ntv, aveva dato prova di essere un modello per il popolo tedesco, dimostrando il suo coraggio – o forse la sua indifferenza – di fronte alla guerra e alla distruzione. Alla domanda se temesse che la Germania potesse essere dichiarata parte in guerra dalla Russia a causa delle sue forniture di armi all’Ucraina, il che potrebbe portare a una guerra nucleare, Merz ha risposto: “Non ho paura di una guerra nucleare con la Russia”.
Tuttavia, ha mostrato – almeno per forma – comprensione per i codardi che la pensano diversamente e non vogliono seguire come lemming la strada tracciata da Merz verso l’abisso nucleare, mentre lui se l’è svignata con il suo aereo privato.
Anche Boris “guerriero” Pistorius, che ha evidentemente un debole per il vocabolario nazista di Joseph Goebbels, sembra avere ormai un solo obiettivo, e non è la pace in Ucraina, perché questa è la cosa che lui e i suoi simili temono di più, perché allora lui e i suoi compagni guerrafondai potrebbero essere chiamati a rispondere delle loro azioni!
Tuttavia, la popolare giornalista berlinese e conduttrice della ZDF Dunja Hayali ha per ora superato tutti in fatto di propaganda con implicito desiderio di morte per la Germania. Nel telegiornale ZDF heute non ha potuto nascondere la sua gioia quando ha introdotto il suo servizio sulle nuove armi per l’Ucraina con le seguenti parole: “Almeno c’è una buona notizia. Kiev riceverà dalla Germania un numero elevato di armi ad alta gittata, nell’ordine delle centinaia“.
Avrebbe potuto dire con altrettanto effetto: ”Rallegratevi, la terza guerra mondiale e la distruzione della Germania sono finalmente a portata di mano”. Per completare questo evento imminente, mancano solo i romantici trattati del 1914 e le tavole rotonde sul tema “È dolce e onorevole morire per la patria”, che all’epoca – e poi di nuovo sotto il nazismo – era sulla bocca di tutti.
In questo contesto, il saggio “Der deutsche Todestrieb” (La pulsione di morte tedesca) di Roland Rottenfußer calza a pennello! Di seguito ho riassunto le sue tesi e osservazioni più importanti, aggiungendo alcune osservazioni.
Rottenfußer inizia il suo saggio con una breve trattazione del famoso Canto dei Nibelunghi e del suo impatto sull’anima tedesca. Nel Nibelungenlied i Burgundi si rifiutano di consegnare l’assassino Hagen, anche se sanno bene che così facendo sigillano la loro stessa fine. Preferiscono mantenere la “fedeltà dei Nibelunghi”, un concetto onorifico che richiede lealtà assoluta, anche a costo della propria rovina. Questo motivo fu successivamente strumentalizzato a fini politici e utilizzato per la prima volta nel 1909 dal cancelliere del Reich von Bülow per giustificare l’alleanza incondizionata con l’Austria-Ungheria. Il risultato fu la prima guerra mondiale, in cui persero la vita oltre due milioni di tedeschi.
I nazionalsocialisti fecero un uso ancora più drastico di questo mito. Negli ultimi giorni della guerra, nel 1945, Hitler chiese a ogni tedesco, in un “ordine del Führer”, di “adempiere al proprio dovere fino all’estremo”. Quando fu chiaro che la guerra era persa, fece attuare una politica della terra bruciata. Nulla doveva cadere nelle mani del nemico: era meglio distruggere tutto. Il Paese fu ridotto in macerie e milioni di persone furono mandate a morte. Il mito del sacrificio eroico finì in un incubo fatto di bombe, fosse comuni e bancarotta morale.
Rottenfußer sottolinea che questi estremi storici possono sembrare lontani a prima vista, dopotutto l’odierna Germania è un Paese di utenti di smartphone e consumatori di Netflix. Tuttavia, la tendenza all’autolesionismo, il desiderio di autodistruzione, come lo definisce il filosofo Jochen Kirchhoff, non è scomparsa. Kirchhoff descrive uno “strato oscuro dello spirito tedesco” da cui emerge un desiderio distruttivo di morte, una disponibilità non solo ad accettare la propria rovina, ma addirittura a desiderarla.
A prima vista, questa tesi sembra patetica. Ma Rottenfußer trova molti indizi che lo confermano nell’odierna Germania. Un esempio: in molte questioni, la politica segue in modo largamente compiacente gli interessi degli Stati Uniti. La Germania si assume ingenti impegni in materia di armamenti, che servono soprattutto alla logica della NATO. Fornisce armi sempre più pesanti all’Ucraina, anche se questo aggrava pericolosamente le tensioni con la Russia. Rottenfußer non vede in questo una politica di pace consapevole, ma una pericolosa servitù, la disponibilità a trascinare nuovamente il proprio Paese in una guerra per interessi stranieri.
Come ulteriore esempio della “fedeltà dei Nibelunghi” tedesca, Rottenfußer cita il rapporto della Germania con lo Stato sionista di apartheid guidato dal regime criminale di guerra di Netanyahu. Dal senso di colpa storico di 80 anni fa, ancora accuratamente coltivato, nasce una lealtà acritica verso gli attuali criminali di guerra. La Germania fornisce loro armi moderne, anche se queste vengono utilizzate in un conflitto che è stato condannato a livello internazionale come genocidio. In questo contesto, Rottenfußer definisce Israele uno “Stato aggressivo”.
Allo stesso tempo, molte persone vengono portate in Germania da paesi nemici di Israele. In questo modo si importano i conflitti del Medio Oriente nelle città tedesche. Manifestazioni con slogan antisionisti, ma anche violenza indiscriminata contro gli ebrei: tutto questo è sotto gli occhi di tutti. Tuttavia, un dibattito aperto su questi temi è vietato e punito, e qualsiasi critica alla politica ufficiale del governo viene immediatamente diffamata come “di destra”.
Rottenfußer va ancora oltre e definisce lo stato dell’economia tedesca un’ulteriore prova dell’attuale “tendenza alla morte” dei tedeschi. Nonostante le voci di avvertimento, il governo ha permesso che il pilastro più importante dell’infrastruttura energetica tedesca venisse fatto saltare senza protestare, senza nemmeno sollevare una protesta seria. Di conseguenza, importanti industrie sono state delocalizzate o paralizzate, non da ultimo a causa di una politica energetica affrettata e fuorviata da utopie ecologiste e di una burocrazia che rende gli investimenti produttivi un percorso ad ostacoli. Le misure contro la pandemia di coronavirus e i conflitti internazionali hanno fatto il resto. Il risultato: impoverimento di massa, crollo della competitività, aumento della depressione e delle malattie, crescente polarizzazione socio-politica e crescente instabilità sociale.
Tuttavia, la tendenza suicida è particolarmente evidente nel calo delle nascite. La Germania sta perdendo costantemente popolazione, in modo graduale ma inarrestabile. Rottenfußer cita i dati dell’Ufficio federale di statistica: dal 1990 il numero delle nascite è diminuito del 23%. Questa tendenza era già iniziata negli anni ’60, ma è stata ulteriormente accentuata dal coronavirus, dalla paura della guerra e dal declino economico. Rottenfußer definisce questo fenomeno una “forma lieve di suicidio collettivo”.
A questo punto cita anche Thilo Sarrazin, non come fonte autorevole, ma come fornitore di dati statistici. Il libro di Sarrazin “Deutschland schafft sich ab” (La Germania si autodistrugge) prevedeva che il numero dei discendenti della popolazione vivente nel 1965 sarebbe diminuito drasticamente. Rottenfußer trova il tono di Sarrazin sgradevolmente freddo, ma riconosce nelle sue osservazioni un fondo di verità: una società che non si riproduce più, che non vuole un futuro, è destinata all’estinzione.
Egli fa inoltre riferimento alla dimensione psicologica collettiva: molti tedeschi vedono questo declino come una sorta di giusta punizione per i crimini del Terzo Reich (nota: mi vengono in mente in particolare gli “antitedeschi”, i giovani “antifa” e i sostenitori e simpatizzanti dei Verdi, che si considerano tutti molto progressisti e di sinistra). Rottenfußer cita episodi concreti che illustrano questo odio verso se stessi: politici come Claudia Roth manifestano dietro striscioni con la scritta “Germania, pezzo di merda”, mentre band come Feine Sahne Fischfilet vengono acclamate pubblicamente con testi come “La Germania è sporca”.
Rottenfußer si oppone anche all’accoglienza acritica delle influenze islamiche. Ne cita molti esempi: insegnanti con il velo, ingressi separati per gli eventi islamici nelle università tedesche, la rinuncia alla carne di maiale nella nazionale di calcio. Chiarisce che il problema non è tanto l’immigrazione, quanto la mancanza di una chiara affermazione di sé da parte della società maggioritaria. Le critiche vengono rapidamente bollate come “islamofobe” e soffocate.
Ma non solo dall’Oriente, anche dall’Occidente arriva una forma di rinuncia tedesca, ovvero l’americanizzazione. Rottenfußer vede nella sottomissione incondizionata della Germania al diktat di Washington una forma particolarmente pericolosa di autodistruzione. Invece di rappresentare i propri interessi, Berlino accetta praticamente tutto ciò che la Casa Bianca chiede: massicce spese per gli armamenti, sanzioni rischiose contro la Russia e una rinuncia all’energia che sta rovinando la propria industria. Per lui non si tratta di “amicizia transatlantica”, ma di una fedeltà vassalliale che può portare la Germania alla rovina.
Egli si sofferma inoltre sull’anglo-americanizzazione della lingua come veicolo culturale. L’inglese è ormai da tempo diventato la lingua obbligatoria nel mondo scientifico ed economico, e molti giovani non riescono quasi più a immaginare di guardare un film in tedesco. Rottenfußer vede anche qui una forma paradossale di sottomissione: mentre il numero di conversioni all’Islam rimane limitato, l’anglo-americanizzazione avviene in gran parte volontariamente e con entusiasmo.
Egli definisce il dilagare degli anglicismi un indicatore di un problema più grande: i tedeschi non avrebbero quasi più alcun interesse per la propria lingua e cultura. Chi coltiva il tedesco è considerato provinciale. Il tedesco viene così schiacciato tra le influenze delle comunità musulmane e la globalizzazione anglo-americana. Rottenfußer osserva una fuga verso l’internazionale, ma non nel senso migliore del termine, ovvero come apertura al mondo, bensì come rifiuto della propria identità. Chi si definisce “cittadino del mondo” crede di potersi così liberare dal “peso della colpa tedesca”.
Egli affronta in modo critico anche il tema del diritto di cittadinanza. Sebbene lo “ius soli” (principio del luogo di nascita) sia più moderno e meno razzista del vecchio “ius sanguinis” (principio della discendenza), egli si chiede: si può davvero riconoscere come tedesco qualcuno che non parla una parola di tedesco e non si identifica affatto con i valori locali? Rottenfußer evita giudizi generici e superficiali, ma mette in evidenza tensioni reali, ad esempio con i sostenitori di Erdogan o i gruppi islamisti che propagano modelli sociali diversi in questo Paese.
Per Rottenfußer la domanda centrale è: i tedeschi vogliono ancora vivere come tedeschi? Oppure il loro disinteresse collettivo per la propria cultura, lingua e futuro è espressione di un profondo desiderio di morte?
Conclude citando il filosofo Jean-Paul Sartre, che già nel 1947 metteva in guardia dai “comportamenti conformisti e di rinuncia a se stessi” dei tedeschi. Sartre chiedeva invece un “impegno sincero per un futuro di libertà e lavoro”. Rottenfußer ne fa il suo appello: la Germania non può semplicemente dissolversi per liberarsi del proprio senso di colpa. Deve sviluppare una cultura aperta ma consapevole di sé. Una cultura che accetti le critiche e sopporti il confronto, invece di soffocare ogni dibattito sul nascere.
Perché senza questo impegno la Germania rimarrà un Paese che si autodistrugge, per comodità, per vergogna o per uno strano e coerente desiderio di autodistruzione. E chi vuole impedire che la frase “Deutschland, verrecke!” (“Germania, muori!”) diventi realtà politica, deve iniziare a riflettere su ciò che può tenere insieme questo Paese. Solo così sarà possibile domare il vecchio istinto di morte.
*Roland Rottenfußer, nato nel 1963 a Monaco di Baviera, è un giornalista e autore tedesco. Dopo gli studi di germanistica, ha lavorato come redattore di libri, copywriter e giornalista per diverse case editrici. Dal 2001 al 2005 è stato redattore della rivista spirituale Connection. Dal 2006 è caporedattore della rivista online Hinter den Schlagzeilen e dal 2020 al 2023 caporedattore di Rubikon (oggi Manova). Ha anche contribuito a pubblicazioni come Natur und Heilen, Publik Forum e Neues Deutschland. Il suo lavoro si occupa spesso di temi spirituali, culturali e politici, con libri come Schuld-Entrümpelung (Liberarsi dal senso di colpa) e Strategien der Macht (Strategie di potere). Ha collaborato a progetti con personalità di spicco come Konstantin Wecker.