Berlino, Germania (Weltexpress). Nel Regno Unito è in corso la demolizione di uno dei più grandi monumenti: la memoria di Shakespeare deve essere adeguata alle direttive dell’attuale follia culturale. Ciò che alla fine significherà, soprattutto, è la censura di intere parti della sua opera.
Negli ultimi anni si è affermata una tendenza disastrosa a far scomparire la cultura. Ciò è evidente già al livello più elementare, quando nelle scuole materne vengono abolite le feste tradizionali stagionali perché potrebbero ferire alcuni bambini a causa delle loro origini religiose. Eppure c’è sempre un’altra possibilità, ovvero quella di inserire nel calendario anche altre festività. La differenza tra le due opzioni, ovvero cancellare tutto per raggiungere una presunta neutralità e ampliare lo spettro, sta nel fatto che nella versione più semplice e quindi più economica, ovvero quella della cancellazione, non è più possibile vivere l’esperienza dell’umanità condivisa, mentre l’ampliamento rende possibile sperimentare ciò che ci unisce.
Ma ci sono livelli ancora più profondi. Nel Regno Unito, Shakespeare deve ora essere “decolonizzato” perché le sue opere sarebbero state utilizzate per propagare la “supremazia bianca”. Lo Shakespeare Trust, che possiede diverse istituzioni dedicate a Shakespeare nella sua città natale, Stratford-upon-Avon, e gestisce una grande quantità di documenti d’archivio su Shakespeare, vuole ora “decolonizzare” tutta la sua collezione e dichiara di voler studiare come “l’opera di Shakespeare abbia avuto un ruolo” nel colonialismo.
Un ragionamento con cui si potrebbe piuttosto abolire la navigazione e il denaro, e comunque l’esercito, il cui ruolo nel colonialismo è stato sicuramente molto più decisivo di quello di Otello o Riccardo III, ma questo significherebbe confrontarsi con il mondo materiale e le sue realtà, e proprio questo è ciò che tutta questa corrente teme come il diavolo l’acqua santa.
Quando Shakespeare scrisse le sue opere, l’Inghilterra stava vivendo il suo grande fioritura culturale. La grande rivolta contadina del 1381 non era ancora riuscita ad abolire la servitù della gleba, ma alla fine di quel secolo era già in gran parte scomparsa e fu definitivamente abolita da Elisabetta I nel 1574, cioè durante la vita di Shakespeare. L’aristocrazia inglese aveva avuto la gentilezza di autodistruggersi in gran parte durante le guerre delle due rose (cioè ciò che ne era rimasto dopo la guerra dei cent’anni contro la Francia) e al suo posto erano subentrati soprattutto i mercanti di tessuti londinesi. Sotto il padre di Elisabetta, l’Inghilterra si era separata dal papato, una disputa condotta con tutto l’ardore di una guerra di religione, ma che in sostanza mirava a mettere sotto controllo i restanti possedimenti feudali della Chiesa.
All’epoca di Shakespeare, i conflitti interni erano stati almeno temporaneamente placati; l’Inghilterra possedeva solo le sue colonie nelle isole britanniche e un piccolo lembo di quella che sarebbe poi diventata gli Stati Uniti, mentre la grande potenza coloniale spagnola aveva perso la sua Armada, inviata per sottomettere l’Inghilterra, in una tempesta nel 1588, quando Shakespeare aveva probabilmente quattordici anni. La tratta degli schiavi britannica non era ancora iniziata; i primi africani deportati arrivarono in Virginia nel 1619. L’economia delle piantagioni che in seguito l’avrebbe alimentata, con la canna da zucchero e il cotone, non era ancora stata inventata. All’epoca il commercio era praticato principalmente dalla Spagna e dal Portogallo.
Era un periodo di relativa prosperità e libertà, un modello di ciò che avrebbe potuto essere la Germania se la lotta contro la servitù della gleba non fosse fallita in modo così fatale nel 1525. I drammi di Shakespeare descrivono le lotte delle Guerre delle Due Rose, la lunga contesa tra le casate dei Lancaster e dei Glouster per il predominio, da una distanza relativamente grande, come parte di qualcosa di completamente nuovo per l’epoca, una storia nazionale in cui le lealtà personali che regolavano i rapporti feudali possono essere analizzate in tutti i loro pro e contro.
Naturalmente nell’opera di Shakespeare ci sono molti elementi che oggi sembrano strani, come “La bisbetica domata”. Ma c’è anche il monologo di Shylock nel “Mercante di Venezia”, in cui l’usuraio Shylock, che in realtà è il cattivo della pièce perché chiede una libbra di carne al suo debitore, acquista grandezza in poche frasi con la rivendicazione dell’uguaglianza umana: “Se ci pugnalate, non sanguiniamo forse?”. Anche in “Giulio Cesare”, il ricorso alla storia romana è un’anticipazione della Repubblica. Non pochi storici della letteratura vedono nella figura di Caliban nella tempesta una prima rappresentazione delle vittime dell’inizio del dominio coloniale. Il dramma vive nell’intervallo e offre quindi la visione più ricca della società in cui nasce, e poche visioni hanno compreso tanto quanto quelle di Shakespeare, a cui la pausa nella transizione (seguita, dopo la morte di Shakespeare, dalla guerra civile inglese, che si riflette poi nel ben più depresso “Leviathan” di Thomas Hobbes) ha contribuito in modo determinante.
I cambiamenti annunciati dallo Shakespeare Trust sono stati innescati da un progetto di ricerca condotto nel 2022 in collaborazione con l’Università di Birmingham, il cui risultato è stato quello di dichiarare Shakespeare un “genio universale”, parte di una “visione del mondo bianca, anglo-centrica, eurocentrica e sempre più ‘occidentale’ che ancora oggi danneggia il mondo”.
Ora, non esiste alcuna legge al mondo che imponga di amare Shakespeare ignorando il “Mahabharata” indiano (che Peter Brook ha magnificamente trasposto sul grande schermo alla fine degli anni ’80) o considerando inferiore il ritratto sociale del cinese Jin Ping Mei. Stranamente, un tempo era possibile percepire l’intero flusso della cultura umana come una lunga conversazione, dall’epopea di Gilgamesh ai giorni nostri, ma proprio questo è reso impossibile dall’assolutismo morale, che confonde l’intenzione con la scusa utilizzata.
Alla fine del XVIII secolo, il colonialismo europeo in Africa era giustificato in Europa principalmente con la lotta contro la tratta degli schiavi; in realtà si trattava di conquista e sottomissione. La lotta contro la tratta degli schiavi è quindi di per sé negativa? Proprio gli inglesi hanno utilizzato questo motivo all’inizio dello stesso secolo per rafforzare il loro controllo sulle rotte marittime e, di fatto, affondare le navi dei mercanti di schiavi con tutto il loro carico non era certo nell’interesse dei prigionieri. Ciò non rende riprovevole la vera lotta contro la schiavitù, così come non è riprovevole Shakespeare perché anche gli ufficiali coloniali britannici macchiati di sangue in India amavano leggerlo o vederlo sul palcoscenico.
Che dire di Martin Lutero? Da un lato, con la sua traduzione della Bibbia in tedesco, è stato per la lingua tedesca ciò che Shakespeare è stato per l’inglese, ma dall’altro lato, con la sua militante opposizione alla rivolta contadina e il suo antisemitismo piuttosto evidente, aveva anche lati molto oscuri. Sminuire o cancellare dalla memoria personaggi storici e conquiste culturali (Martin Lutero, ad esempio, ha subito un netto declino nei decenni che ho sotto gli occhi) non cambia nulla delle condizioni attuali, anche se i sostenitori di questa pratica se lo immaginano. Ma fa qualcos’altro: riduce la percezione delle contraddizioni che ogni essere umano porta dentro di sé, così come la percezione delle dinamiche storiche.
(Per questo motivo è del tutto assurdo considerare ideologie come la cancel culture o la follia gender come marxismo: non conoscono la dialettica né sono materialiste in senso filosofico, ma sono esattamente l’opposto di entrambe).
Per fortuna di Omero non si sa nulla se non le sue opere, altrimenti bisognerebbe cancellarlo dal canone perché picchiava sua moglie o fregava il suo vignaiolo (anche se in alcuni luoghi l’Iliade è già stata cancellata per eccessiva violenza). Eppure, ciò che l’arte può offrire nel migliore dei casi è uno sguardo sulle possibilità umane in tutte le loro sfaccettature, contraddizioni incluse. Ma senza questo sguardo, il desiderio di una società in cui queste possibilità siano aperte a tutti non può nemmeno nascere. Il fatto che le orde naziste abbiano invaso il mondo con il Faust di Goethe nello zaino non squalifica il Faust.
Ma anche nei licei tedeschi di oggi intere opere teatrali non vengono nemmeno più lette, figuriamoci viste (ammesso che Shakespeare possa ancora essere messo in scena, dato che richiede troppi attori), e la storia viene presentata come qualcosa di definitivamente concluso, le cui forze motrici non sollevano domande: dati che vengono memorizzati per un breve periodo, richiamati e dimenticati, lontani dal grande dramma umano. Ma il dialogo umano, dal più piccolo tra due persone alla politica, fino alla cultura che abbraccia secoli, ha un presupposto fondamentale: riconoscere le contraddizioni.
La convivenza a tutti i livelli non richiede semplicemente la tolleranza dell’altro, ma il riconoscimento che ogni sviluppo è possibile solo a partire dalle contraddizioni, anche quelle interiori. Shakespeare è ancora un interlocutore prezioso e, se si volesse “decolonizzarlo”, si potrebbe far recitare da una compagnia di attori nigeriani (da decenni sogno di vedere Macbeth in una versione yoruba); ma la riduzione, l’appiattimento di ogni figura storica priva l’intera conversazione umana. Eppure, da questa conversazione dipende la nostra sopravvivenza come specie.