
Berlino, Germania (Weltexpress). Sì, improvvisamente il mainstream tedesco scopre la Corte internazionale di giustizia dell’Aia. Ma solo perché i giudici che vi lavorano hanno redatto un parere che fa comodo alla politica tedesca. Il diritto internazionale interessa solo quando fa comodo.
I media tedeschi, in primis il Tagesschau, esultano per il “parere innovativo” che la Corte internazionale di giustizia dell’Aia ha pubblicato sugli “obblighi degli Stati in materia di cambiamenti climatici”. Viene definita “rivoluzionaria” (Tagesschau), o “un ambiente pulito è un diritto umano” (heute); o “le mancanze nella protezione del clima sono contrarie al diritto internazionale” (WAZ).
Certo, questo si adatta alla linea tedesca, dopotutto i propri cittadini vengono ampiamente spremuti e impoveriti con la motivazione della “protezione del clima”, quindi arriva proprio al momento giusto. Tuttavia, come al solito, il diavolo si nasconde nei dettagli, e dietro si cela una questione che la Corte internazionale di giustizia non ha naturalmente affrontato, ovvero se una tale limitazione della sovranità statale, come si evince da questo parere, sia compatibile con la democrazia.
Il parere giuridico è stato redatto su richiesta dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 2023, ma non è giuridicamente vincolante. La Corte Internazionale di Giustizia (CIJ) non ha un organo esecutivo. Tuttavia, in relazione alle azioni intraprese negli ultimi decenni, in particolare dai paesi occidentali, potrebbe comunque avere conseguenze molto spiacevoli.
La Corte internazionale di giustizia è un tribunale che si occupa essenzialmente dell’attuazione dei trattati internazionali. Ciò significa che, anche se giungesse alla conclusione che gli Stati sono tenuti a rispettare le norme per combattere il “cambiamento climatico causato dall’uomo”, tale conclusione si dividerebbe in due parti: una che può applicarsi a tutti (derivata dalla Carta delle Nazioni Unite) e un’altra che si basa proprio sui trattati a cui hanno aderito i rispettivi Stati, come l’accordo di Kyoto. In quest’ultimo caso, la soluzione è relativamente semplice: in caso di grave conflitto con la sovranità e gli interessi nazionali, lo Stato interessato può recedere dai rispettivi accordi.
Un’idea di dove possano sorgere tali conflitti è già fornita dal comunicato stampa della Corte internazionale di giustizia, in cui si afferma: “Il mancato intervento di uno Stato per proteggere il sistema climatico dalle emissioni di gas serra, compresa la produzione di combustibili fossili, il consumo di combustibili fossili, la concessione di licenze per lo sfruttamento di combustibili fossili o la concessione di sovvenzioni per i combustibili fossili, può costituire un atto contrario al diritto internazionale imputabile allo Stato”.
È facile immaginare come i sostenitori occidentali delle sanzioni sfrutteranno questa occasione per impedire, ad esempio, ai paesi africani di sviluppare le loro riserve fossili o per punirli, indipendentemente dal fatto che ciò comprometta o meno il benessere futuro delle rispettive popolazioni. Conflitti di questo tipo si sono già verificati, ad esempio con la Namibia. Dopotutto, è possibile che il piccolo Stato insulare del Pacifico di Vanuatu, che ha contribuito alla redazione del parere, speri in un’iniezione di liquidità perché l’abitabilità delle isole è a rischio (anche se il fatto che ciò sia “causato dall’uomo” sia “causato dall’uomo” è un dato di fatto solo per i sostenitori dell’IPCC, di cui evidentemente fa parte anche la Corte internazionale di giustizia, e i dati sui sedimenti indicano che nel corso della storia della Terra il livello del mare si è alzato e abbassato ripetutamente). Per il resto, la sentenza può anche affermare che è necessaria una prova concreta della causalità prima che sorga qualsiasi diritto, ma da quando l’Occidente collettivo si preoccupa di questi dettagli?
Vanuatu otterrà forse qualche briciola, anche solo per poter presentare un caso esemplare di “vittime del clima”. E naturalmente la burocrazia di Bruxelles farà riferimento alla perizia per portare avanti i “dazi climatici” pianificati da tempo, che in sostanza non sono altro che dazi protettivi contro le ex colonie e che, con una nuova motivazione, impediscono loro l’accesso al mercato europeo. Ma alla fine dipenderà da questioni completamente diverse se queste opzioni di gioco malvagie che sono state aperte saranno realizzate o meno: dal rapporto di forza tra l’Occidente collettivo e i BRICS, il cui concetto di sviluppo non prevede affatto il mantenimento della povertà che l’Occidente ha perseguito con tanta coerenza negli ultimi decenni.
Anche la questione della sovranità, che si nasconde in questa perizia, sarà affrontata a questo livello. In definitiva, la fede nel clima, con tutte le sue istituzioni, è un prodotto del dominio unipolare degli Stati Uniti, e la fine di questa egemonia la ridimensionerà almeno in modo significativo. Ciò che attualmente viene perseguito nell’UE come “protezione del clima”, come i progetti di energia eolica che, attraverso l’aumento dei costi dell’elettricità, dirottano una parte sempre maggiore del reddito della popolazione normale nelle tasche degli “investitori”, o le assurde norme edilizie, finirà per peggiorare solo le condizioni economiche dell’UE stessa, perché il potere materiale di imporre queste regole al resto del mondo non è più disponibile.
È comunque evidente come la Corte internazionale di giustizia sia stata lodata a gran voce per questo parere, mentre sono state completamente ignorate istruzioni piuttosto concrete che hanno un vincolo molto più elevato per tutta una serie di Stati. Infatti, almeno in Germania, si preferisce tacere su un vero e proprio procedimento dinanzi alla Corte internazionale di giustizia, ovvero quello contro Israele per il genocidio a Gaza e quello contro la Germania per la sua partecipazione a tale genocidio.
In questo caso non si tratta solo del “diritto umano a un ambiente pulito, sano e sostenibile”, anche se il numero crescente di malformazioni nei bambini nati a Gaza suggerisce già ora che vengono utilizzate munizioni contenenti uranio e altre sostanze tossiche – no, si tratta del diritto alla vita stessa. Della pura esistenza. Non morire di fame, non morire di sete, non essere fatti a pezzi dalle bombe o trapassati dai proiettili. Ma qualunque sia la decisione della Corte internazionale di giustizia in merito, essa non susciterà né grandi festeggiamenti al telegiornale o su altri media tedeschi, né i politici tedeschi si sentiranno in alcun modo vincolati ad essa. Proprio di recente la Germania ha impedito una risoluzione europea contro Israele (cosa che alcuni hanno commentato in rete ricordando che nel 1986 la Germania aveva votato contro le sanzioni contro il Sudafrica dell’apartheid).
È così che funzionano la “comunità internazionale”, il diritto internazionale e, in ultima analisi, anche la Corte internazionale di giustizia. Sono rilevanti solo quando servono ai propri scopi. Altrimenti si tace e si continua a fare ciò che si è sempre fatto, come fornire armi a Israele. Dopotutto, sono sottomarini tedeschi che trasportano missili nucleari israeliani, mentre allo stesso tempo il governo tedesco accoglie con favore l’attacco israeliano all’Iran, nonostante il trattato di non proliferazione nucleare garantisca a quest’ultimo l’uso pacifico dell’energia nucleare e nonostante nella maggior parte dei paesi questa energia sia considerata rispettosa del clima. Chi ha bisogno della logica nella vita?
Tuttavia, il rapporto ora pubblicato ci verrà ripetuto all’infinito come se fosse un’emanazione dell’infallibilità papale, ogni volta che si muove anche la più piccola resistenza contro la follia climatica e ogni volta che si tratta di dare una lezione a uno Stato povero che è diventato un po’ troppo ribelle, ci sarà qualche ONG tedesca che chiederà sanzioni al governo federale o all’UE. Per il clima. E i bambini di Gaza continuano a morire di fame, mentre un cancelliere tedesco stringe amichevolmente la mano al genocida israeliano Benjamin Netanyahu.